Fondazione
Petruzzelli: Turandot di Giacomo
Puccini
Allestimento
Fondazione Lirico Sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari
Mercoledì 9
novembre alle 20.30 al
Teatro Petruzzelli andrà in scena la prima di Turandot, per la regia di Roberto
De Simone, dirigerà l’Orchestra Giampaolo
Bisanti, maestro del Coro Fabrizio
Cassi, maestro del Coro di Voci Bianche Vox Juvenes Emanuela Aymone.
A
curare la ripresa del capolavoro di Giacomo Puccini il maestro Ivo Guerra.
La
produzione della Fondazione Petruzzelli inaugurò la Stagione d’Opera 2009/2010,
la prima dopo la ricostruzione del Teatro ed è stata rappresentata con grande
successo di pubblico e critica al Teatro
Comunale di Bologna (Stagione 2011/2012), al Teatro dell’Opera di Roma (Stagione 2012/2013) ed al Teatro di San Carlo di Napoli (Stagione
2015/2016).
Le
scene sono di Nicola Rubertelli, i
costumi di Odette Nicoletti, il
disegno luci di Vincenzo Raponi, le
coreografie di Domenico Iannone.
Turandot sarà interpretata da Tiziana Caruso (9, 11, 13 e 16
novembre) e Maria Billeri (10, 12,
15 e 17 novembre), Rino Matafù sarà Altoum, a dar vita al personaggio di Timur saranno Deyan Vatchkov (9, 11, 13 e 16 novembre) e Cristian Saitta (10, 12, 15 e 17 novembre).
Il
ruolo di Calaf sarà interpretato da Carlo Ventre (9, 11, 13 e 16 novembre) e Amadi Lagha (10, 12, 15 e 17 novembre).
Daria Masiero (9, 11, 13 e 16 novembre) e Valentina Farcas (10, 12, 15 e 17
novembre) canteranno Liù.
Domenico
Colaianni
sarà Ping, Saverio Fiore Pang, Massimiliano Chiarolla Pong.
Tiziano Tassi canterà Un mandarino, Raffaele
Pastore (9, 11, 13 e 16 novembre) e Francesco
Napoletano (10, 12, 15 e 17 novembre) saranno il Principe di Persia, Maria
Silecchio (9, 11, 13 e 16 novembre) e Roberta
Scalavino (10, 12, 15 e 17 novembre) saranno la Prima ancella, Giovanna
Padovano (9, 11, 13 e 16 novembre) e Teresa
Caricola (10, 12, 15 e 17 novembre) la Seconda
ancella.
Il
dramma lirico in tre atti e cinque quadri su libretto di Giuseppe Adami e
Renato Simoni è tratto dalla fiaba teatrale di Carlo Gozzi ed è stato
rappresentato per la prima vola al Teatro
alla Scala di Milano il 26 aprile 1926.
In replica
giovedì 10 e venerdì 11 novembre alle 20.30, sabato 12 e domenica 13 novembre
alle 18.00, martedì 15, mercoledì 16 e giovedì 17 novembre alle 20.30. I
biglietti ancora disponibili sono in vendita al botteghino del Teatro
Petruzzelli e on line su www.bookingshow.it
LA
STORIA DEL PRINCIPE CALAF
E
DELLA PRINCIPESSA TURANDOT
di Roberto De Simone
La favola di Turandot fa parte di una raccolta di fiabe
persiane intitolata Les Mille et un Jour
(I mille e un giorno). L’orientalista Francois Pétis de la Croix nel 1674 la
raccolse e la trascrisse a Isfahan da un manoscritto persiano, probabilmente in
forma di commedia indiana del XVI sec., ma sicuramente di antichissima origine.
Nel 1710 essa, tradotta in francese, fu pubblicata a Parigi e poi in altre
lingue.
Il nodo della vicenda ha inizio con la narrazione delle
peregrinazioni di Calaf, principe dei Nogai, che vaga in esilio con la madre
Elmase e il Khan Timur suo padre in seguito alla sconfitta subìta
dall’invasione dell’esercito del Sultano Khoresmi. Dopo diversi episodi Calaf
giunge a Pechino, in Cina, per entrare al servizio dell’Imperatore Altoum-Khan;
viene informato delle crudeltà della principessa Turandot. Ella è ossessivamente memore di una invasione patita dal suo regno,
quando una sua mitica antenata, purissima fanciulla, divenne preda di un
soldato dell’esercito invasore, dal quale fu violentata e uccisa. Ritenendosi
quasi la reincarnazione di tale antenata ella aborre gli uomini sui quali
esercita una continua vendetta mandando a morte i suoi pretendenti alle nozze i
quali non riescono a sciogliere gli enigmi che ella propone come prova
condizionale al matrimonio. Inorridisce Calaf ma, al solo vedere un ritratto
della Principessa se ne innamora e chiede ufficialmente di sottoporsi alla
prova. Seguono l’episodio degli enigmi (Il
Sole, il mare, il ciclo del tempo annuale) risolti da Calaf; l’ostinato rifiuto
alle nozze di Turandot, e la proposta del principe di indovinare il proprio
nome. Nella notte di attesa la Principessa invia nelle stanze di Calaf una
propria schiava con l’intento di carpirne il nome. Ma la donna, innamorata
segretamente di lui, riesce con un inganno a conoscere il segreto del Principe,
al quale propone di fuggire con lei e lasciare la Cina, informandolo che
Turandot è intenzionata a farlo assassinare nelle sue stesse stanze. Ma Calaf rifiuta la fuga con lei ribadendo il suo
amore per Turandot. La schiava,
allora, per vendicarsi, rivela il nome alla sua padrona, che all’alba del dì
seguente lo rende palese al padre vincendo la prova, eppure, soggiogata dalla
perseveranza amorosa di Calaf, accetta di sposarlo. A tal punto insorge la schiava delatrice che, al
colmo della gelosia e del disappunto passionale, trae un pugnale e si uccide,
dichiarando di volersi sciogliere dalle catene della schiavitù e da quelle dell’amore.
La salma della schiava vittima di un tenace sentimento
viene rivestita sontuosamente e, deposta presso le tombe degli imperatori della
Cina, per cui diviene oggetto di culto imperituro. L’antologia I Mille e un Giorno si contrappone
chiaramente a Le Mille e una Notte.
Difatti, mentre questa narra di un Principe che all’alba manda a morte una
donna, Turandot al tramonto condanna alla pena capitale un uomo. In buona sostanza, l’origine di entrambe le raccolte affonda le sue
radici in arcaici miti cosmogonici che riguardano il Sole e la Luna nel loro
continuo alternarsi ciclico di vita, morte,
rinascita.
Il tema riguardante gli enigmi rimanda a lontani riti
iniziatici nei quali rientra il noto episodio della Sfinge che pone a Edipo una
medesima prova da superare per potere sposare la regina Giocasta. L’elemento
del nome da indovinare si connette alla sacralità del nome nascosto, di un
mantra, di una divinità, di un eroe e non al reale nome assunto comunemente da
tale eroe o da un dio. Conoscere il nome misterico di un’entità celeste o
infera equivale ad avere in proprio potere l’essenza, l’anima dell’eroe o del
dio stesso. Anche Turandot alla fine della rappresentazione teatrale non palesa
il nome di Calaf, ma quello di Amore del quale si sente in potere. Peraltro, la
crudeltà di Turandot assume carattere divino, di un dio al di sopra della
comune morale, al di fuori del bene e del male.
La fredda Principessa è agita, è posseduta da un demone,
dall’anima di una sua antenata, che attraverso la sua discendente si vendica
dello stupro usatole da uno straniero nel corso di un’invasione militare. Da questo demone Turandot è posseduta finché un atto di amore placherà lo
spirito oltraggiato (la morte di Liù o della schiava più che il bacio di
Calaf). Infine, Turandot sposa Calaf obbedendo alla sua natura femminile,
introducendo miticamente quel periodo di tempo, ovvero la sospensione del tempo
stesso, che si connota come ierogamia solare-lunare.
Ritornando al tema delle origini, in forma epica, il tema di Turandot fu trattato nel 1198 dal poeta persiano Nezami col
titolo “I sette ritratti” la cui azione si svolge in Russia (solo
posteriormente la trama del racconto venne ambientata in Cina). La fiaba
acquistò rinomanza letteraria attraverso la commedia che nel ’700 il Carlo
Gozzi ne trasse mantenendo i nomi originali di Calaf, di Turandot, di Timur, dell’Imperatore Altoum, eppure
introdusse, in ossequio alle consuetudini teatrali del suo tempo, le maschere
di Tartaglia, di Pantalone, di Brighella e di Truffaldino.
Il personaggio di Liù fu adombrato da Adelma, Principessa
Tartara schiava di Turandot, che, ugualmente innamorata di Calaf, tenta di
trafiggersi per gelosia, ma viene trattenuta da Calaf che le toglie di mano il
pugnale (il Gozzi non poteva introdurre un elemento tragico in una
convenzionale commedia a lieto fine).
La
scena è in Pechino – recita la
didascalia strutturale del Gozzi – il
vestiario di tutti i Personaggi è Chinese, salvo quello di Adelma, di Calaf e
di Timur, ch’è alla Tartara.
Nel secolo IXX, Federico Schiller traspose in tedesco, ugualmente in versi, la commedia del Gozzi, praticandovi
pochissime modifiche (variano, ad esempio i tre enigmi proposti da Turandot). Ma identica è la struttura
drammaturgica, uguali risultano i dialoghi, combaciano i personaggi e le
azioni. A tale proposito lo scrittore Andrea Maffei che a metà secolo
ritradusse la Turandot in italiano scrisse:
«Tradotta dal tedesco questa singolarissima composizione,
mi venne desiderio di rileggerne l’originale italiano per vedere e notare i
passi dallo Schiller mutati; e con mio stupore trovai che ben di poco il poeta
straniero si era allontanato dal nostro. A che dunque vuolsi attribuire l’oblio
nel quale è caduta in Italia la Turandot di Carlo Gozzi, mentre in Germania e
si legge e si ascolta con sempre nuovo piacere? Non ad altro (mi giova il
ripeterlo) fuori che alla negligenza della lingua e del verso. Lo Schiller
altro non fece che sostituire il suo nobile e poetico stile al volgarissimo e
spesso abbietto del Gozzi: ecco tutto il prestigio.»1
Eppure, bisogna considerare il frequente impiego del
dialetto introdotto dal Gozzi nelle battute delle maschere, secondo gli
stereotipi linguistici della Commedia dell’Arte. Lo Schiller fu costretto a
tradurre le frasi dialettali uniformandole alla lingua tedesca messa in bocca
agli altri personaggi.
Tale adeguamento fu sottolineato dallo stesso Schiller
dopo l’elencazione dei personaggi, col dichiarare:
«Qualora si volesse mettere sulle nostre scene la Turandot, converrebbe dare altro nome
alle quattro maschere oggidì non tollerabili.2»
Il compositore Carlo Maria von Weber, nel 1809, scrisse le
musiche di scena per la Turandot
(sicuramente per l’adattamento elaborato in versi dallo Schiller). La partitura
consta di un’ouverture e di sei brani
(Op. 37). Oltre Carl Maria von Weber, altri musicisti si cimentarono nel comporre
musiche per la Turandot in tedesco:
da Franz Seraph von Destouches (1802) a Friedrik Ludwig Seidl (1806) a Joseph
von Blumenthal (1813) a Vincenz Lachner (1843). Ma una prima versione operistica fu composta da J. F. G. von Blumenthal (1809). Una seconda fu
scritta da Hermann von Löwenkjold (1842). Si elenca poi una Turandot Singspiel nach Gozzi di Fran
Danzi (1816).
Il compositore Carl Gottlieb Reisinger compose una Turandot, Prinzessin von Shiraz (1838);
e Theobald Rebbaum a Berlino rappresentò la sua Turandot komische oper…frei
nach Gozzi. Successivamente, di maggior rilevanza storica è da
considerare la Turanda di Antonio
Bazzini su libretto di Antonio Gazzoletti che andò in scena al Teatro alla
Scala nel 1867. Da tener presente che
il Bazzini, insegnante di composizione al Conservatorio di Milano, ebbe fra i
suoi allievi Alfredo Catalani, Pietro Mascagni e Giacomo Puccini. Il libretto
del Gazzoletti attinge alla traduzione del Maffei; purtroppo l’opera non ebbe
successo né repliche.3
Nel 1917 il musicista Ferruccio Busoni mise il soggetto in
musica traendo il libretto in tedesco direttamente dalla commedia del Gozzi,
ritenendo la traduzione dello Schiller molto edulcorata e deviante.
Successivamente, nel corso degli anni Trenta del Novecento, Bertolt Brecth
impiegò pochi elementi derivati dalla nota fiaba desumendoli dallo Schiller e
compose la Commedia Turandot ovvero il
Congresso degli imbiancatori, specificandone gli intenti nella premessa
collocata dopo l’elenco dei personaggi e la collocazione scenografica in Cina.
«La commedia Turandot
ovvero il Congresso degli Imbiancatori fa parte di un vasto complesso
letterario, che per la maggior parte consta ancora di progetti e di abbozzi. A
tale complesso appartiene un romanzo dal titolo Il declino dei Tui, un volume di racconti, Storie dei Tui, una serie di commedie, brevi Farse sei Tui, e un volumetto di trattati intitolato L’arte del leccapiedi ed altre arti.
Tutte queste opere, cui l’autore lavora da decenni,
trattano del cattivo uso dell’intelletto.4»
Com’è chiaro, la commedia segue intenti di teatro politico
e pochissimo accoglie della vicenda elaborata da Schiller.
Precedentemente e finalmente, gli scrittori Renato Simoni
e Giuseppe Adami approntarono il libretto Turandot
per la musica di Giacomo Puccini. Esso si basa in parte sulla traduzione di
Andrea Maffei dell'adattamento tedesco di
del lavoro di Gozzi, ma, principalmente dal Gozzi stesso che Puccini
preferiva, in parte dalla favola letteraria persiana. I nomi di Turandot,
Calaf, Timur, Altoum restarono gli stessi, ma le quattro maschere vennero
ridotte a tre, assumendo i nomi di Ping, Pang, Pong. La schiava suicida (Adelma
in Gozzi) divenne Liù, non schiava di Turandot, ma di Timur.
Il personaggio assunse i connotati sentimentali delle
eroine pucciniane divenendo sorella di Butterfly, di Suor Angelica, di Tosca,
ma assumendo nei confronti di Turandot una contrapposizione femminile che
sembra anche marcare un’epoca musicale morente e superata nel tragico tramonto
del melodramma italiano. Infuriava ancora in quegli anni la bufera europea
della crisi tonale post wagneriana ed erano entrate in campo quelle nuove
spinte espressionistiche tardo impressionistiche, il modalismo di sapore
medievaleggiante, procedimenti politonali
o atonali, la poliritmia stravinskiana e bartókiana, un primitivismo di tipo
folklorico e infine nuovi e suggestivi elementi che provenivano dall’America,
dal Jazz e dalla Commedia musicale, cui lo stesso Puccini sembrava tendere
spesso l’orecchio.
Il linguaggio del libretto senza raggiungere altezze
poetiche, si mantiene a livello di professionale artigianato, ma i versi di
tipo polimetrico accolgono elementi che risentono del clima espressionistico
(vedi le tre maschere) e di suggestioni persino futuristiche. A volte
filastrocche infantili rimandano echi alla Palazzeschi, ai marinettisti; eppure
non mancano qua e là elementi tradizionali veristici, realistici e
realistico-romantici. La parte più discutibile resta il finale in cui risaltano
espressioni enfatiche, ridondanti, stridentemente erotiche, che generano un
tessuto contraddittorio e perfino imbarazzante nei confronti dell’intera opera,
in cui il dramma non si risolve per quel che riguarda il personaggio di
Turandot e del suo “disgelo dopo la morte di Liù”. Conosciamo chiaramente le
perplessità e i problemi di Puccini ad accettare con soddisfazione questo
finale e realizzare quest’ultima parte, che al sopraggiungere della rapida
morte rimase incompiuta.
Orbene, alla luce dei vari elementi esposti dalla genesi
del mito, alle forme teatrali del Gozzi,
a Simoni e Adami, ho elaborato un progetto
rappresentativo che principalmente si riferisce all’aspetto favolistico di tipo
arcaico, pure accogliendo gli elementi storico-stilistici, accumulati e stratificatisi
nel corso del tempo ed emergenti polistilisticamente nella stessa musica del
geniale musicista lucchese.
Eppure, la mia scrittura drammaturgica si è valsa
principalmente del ricordo invasante dello stupro occorso all’antenata di
Turandot (Lau Ling) elemento che distingue nettamente la natura femminile di
Liù da quella della Principessa.
In buona sostanza, Turandot è posseduta dallo spirito
vendicativo della sua ava che ne ha bloccato magicamente la pubertà e la
facoltà di amare il sesso contrario. Di qui il suo “gelo
che ti dà foco” e il drammatico problema di Puccini a individuare l’elemento
che possa causare il disgelo della Principessa. Il bacio esorcistico estorto
quasi con virile violenza parrebbe atto ad allontanare il demone insediatosi
nel corpo dell’imperiale fanciulla, ma, antropologicamente è il suicidio di Liù
che sembra compiere la liberazione, come gesto compiuto in nome di un amore
irrinunciabile, atto a placare la Erinni vendicativa trasformandola in
Eumenide. In effetti, tutto riconduce Turandot a figure mitiche come Medea,
come Giocasta, come Cassandra, come Clitennestra. Il disgelo di Turandot
rappresenta una catarsi che la conduce alla conclusiva ierogamia ristabilendo
gli equilibri e le leggi degli déi e degli uomini, nei loro conflitti
oppositivi del maschile e del femminile.
NOTE
1) Macbeth –
Tragedia di Gugliemo Shakespeare;
Turandot - Fola tragicomica di Carlo Gozzi, imitate da
Federico Schiller e tradotte dal Cav. Andrea Maffei – Firenze 1867 – pag 321.
2) Idem. Pag
165.
3) Turandot di
Giacomo Puccini, W. Ashbrook – H. Powers, Ed.Accademia di Santa Cecilia –
Ricordi, Roma 2006.
4) Teatro - Vol. 3 ed. Einaudi pag 709.
La foto è di Mirko Magliocca
Nessun commento:
Posta un commento