lunedì 26 gennaio 2015

MATTEO MASTROMARINO: CLARINETTISTA PRODIGIOSO ED AUTENTICO TALENTO

Essere prodigiosamente in uno stato di grandezza  
o sia
ricognizioni sulla extra-ordinarietà di un giovane clarinettista




di Attilio Cantore





Wenn Inneres sich bewährt, ist Gutes zu erkennen,
Es ist zu würdigen, von Menschen zu benennen,
Est ist zu achten, nüzzt und ist nothing in dem Leben.

Se l’interiorità si afferma, il bene va riconosciuto,
Si deve apprezzarlo, gli uomini devono nominarlo,
Va considerato, serve ed è necessario alla vita.

Friedrich Hölderlin (Das Gute - Il Bene)





TARANTO - La nostra epoca è caratterizzata da una muta malinconia biologica e da una disarmonica incertezza che sembrano paralizzare ogni cosa; e d’un tremore osteocitico è pervasa la gente, sì prostrata alla nequizie di tale orrido sfacelo. Ripetiamo roboticamente, come automi imbelli, le parole Libertà e Umanità, «che ormai rischiano di diventare quasi dei mozziconi» (Titos Patrikios), paghi della loro forzosa obsolescenza di lemmi corrotti da lungo tempo e sommersi da onorifica naftalina; e con loro anche il Coraggio, il Rischio e la Scelta (insomma, tutto ciò che ha a che fare con un possibile eccedere i bordi, o sia i margini tracciati dalla realtà avvilente) sembrano essersi eclissati nelle valli dei trofei fossili ed oggi vivono solo sul registro dei contumaci tenuto dai magazzinieri dell’Arte, quasi che ognuno di noi non avesse in sé le giuste qualità per osare o, per meglio dire, non dovesse anzitutto tracciare le linee di mondi possibili, approntare la carta geografica di nuove realtà più dolci e poeticamente abitabili: realtà tangibili, epidermicamente aderenti a ciò che noi autenticamente scopriremmo (dopo una vasta e preziosa itineranza) di essere. Anche se il mondo ci ringhia contro il contrario, illudendosi di stordirci con i suoi rabbiosi decibel miscredenti, credo che, dopotutto, non sia più il tempo di indossare ancora la pesante livrea tragica della sconfitta genetica e camminare tremebondi nella febbre delle nostre straniere e false metropoli: abbiamo un disperato bisogno di scoprire la «libertà di osare sulle strade che impongono l’innocenza come un dovere di verità» (Carla Saracino); dovremmo, in altri termini, raggiungere deliberatamente il centro di ciò che siamo, munendoci di ali per dare slancio ai nostri sogni. Questo è, indubitatamente, difficile, soprattutto in un’epoca come la nostra, intessuta di meschini rapporti economici per i quali l’uomo in sé non ha più valore; eppure, bisogna desiderare di essere liberi (fermo restando che, come disse Julius Evola, «ognuno ha la libertà che gli spetta, misurata dalla statura e dalla dignità della persona»). In ogni caso, dobbiamo lottare per essere autenticamente liberi; d’altronde, si chiedeva Dostoevskij: «Cos’è l’uomo senza desideri, senza libertà e senza volontà, se non una puntina nel cilindro di un organetto?».
È vero, «munirsi di ali e mettere radici nei sogni» (Salman Rushdie) è difficile: impone una vera e propria elettrolisi, un congedo dal nostro modo di essere, uno scarto lacerante rispetto al nostro modo di organizzare il mondo. La scommessa è non indulgere più nella comoda nostalgia di fantasmagorici beaux jours; la scommessa è divenire dissidenti rispetto alle regole prefabbricate del reale; dovremmo divenire folli ed essere all’altezza della nostra follia, per dire ciò che va detto, anche a costo di fingere di mentire; e poeti (artisti), per recarci nelle immaginarie Avalon o Belmont e tronarne arricchiti. Ma chi mette in dubbio l’inflessibile tirannide della monoliticità del reale, auspicando possibili nuove realtà fluide, viene guardato sempre con sospetto, quasi fosse colpevole agli occhi del mondo di crimen lesæ majestatis; allora non mi sembra un caso che proprio i folli, i poeti e i dissidenti (enigmatici “stranieri” che creano cortocircuiti esistenziali), non furono ammessi nel dorato consesso della Repubblica platonica. Come reagire? Dovremmo riscoprire, in un’artistica deflagrazione comiziale, ciò che essenzialmente siamo destinati ad essere; ma, per comprenderlo, dobbiamo prima imparare ad ascoltare (anzi, auscultare), gli abissi rizomatici della nostra anima, giacché è in de profundis che abita il ‘sisma’, il ‘colpo apoplettico’, il singhiozzante hoquetus, il cantus abscissus che prelude alla nascita dell’Arte. Lo scrittore e critico musicale Giorgio Vigolo parlava a tal proposito di orecchio introverso, un “orecchio” «che si è separato dal mondo esterno, che si ravvolge in se stesso ed ascolta attraverso il silenzio, la meditazione e la memoria: che realizza il “conosci te stesso”, come un “odi te stesso”».

La scommessa più grande, il nostro azzardato all-in, il nostro vincente colpo di dadi, deve essere cercare noi stessi: «cercare se stessi, non si cerca che questo» (Cesare Pavese). Per un artista la ricerca di sé, della «nudità fertile del [suo] spirito» (Valerio Magrelli) diviene un dovere di verità; lo diviene nel momento in cui, per segnali formicolanti e rifrazioni, per legature e sincopi, egli riesce ad auscultare la polifonia che gli appartiene, ad avere pienamente sete di familiarità con il proprio sé, in un partage mistico con l’Umano e la Natura. Contro il dogmatismo asfittico del mondo della Tecnica ed il cieco brancolare degli ambigui interessi economici, l’Artista (cioè il Wanderer, il viandante che cammina colmo di crucci e di sogni «con un bastone e la ciotola del pellegrino»), eroe dell’epos della quotidianità, deve impegnarsi ad essere in maniera inesausta, per destinazione genetica, l’ostinato sostenitore della Verità del proprio Essere. Per far ciò, la sua “giusta ambizione” (il fichtiano Streben, che è anelito, ma anche struggimento; tensione verso l’infinito, ma anche sforzo mai appagato) non deve conoscere limiti o ridicole cautele: egli deve sempre vibrare in simpatia con le folgorazioni di magnitudine divina, e lo deve fare con entusiasmo (cioè, avvertendo un dio vibrare dentro di sé).  

L’Artista deve riuscire a squarciare il limite equabile del “così è” (se trova bastantemente forza per farlo), scombinando le armonie fra le note con il suo sguardo pungente, per poi coagularle in una nuova e più forte adiacenza nuziale che parli all’uomo del proprio «Innere Stimme» (Robert Schumann): della profondità sonora, della vox intima che mormora al di sotto del fondo di noi stessi.
Esattamente questo dovrebbe fare l’artista: scavare senza sosta con sudore e gioia nelle miniere del cuore e del dolore per trovare la propria ‘pietra angolare’ e saperla custodire, a dispetto della vile crudeltà del mondo, per poi donarla al prossimo in un originale ed intimo «inno limpido della vita» (Καθαρὸς ὕμνος τοῦ βίου), di cui parlava il grande poeta greco Odisseas Elitis.
L’artista vero è dunque una persona che gestisce in maniera super-eroica la propria condizione umana (poiché sa vivere il trauma di un sisma epifanico, trasducendolo con specificità tecnica per il bene dei suoi simili); è altresì un uomo fragile (perché più vicino alla terribile e veneranda presenza dei numi); è in ogni caso un essere extra-ordinario, i cui battiti cardiaci sfuggono all’ordine consueto del loro ritmo (perché aderenti ai ritmi della Natura). L’artista vero è, ne multus sim, una creatura prodigiosa e preziosa: è un creatura mitica, giacché predestinata a identificare la destinalità del proprio essere-al-mondo, riuscendo proprio per questo a vivere pienamente il Bene (cioè vivere pienamente il dovere di essere se stesso).




L’Italia, effettivamente investita da una poderosa crisi culturale, viene troppo spesso demonizzata per essere una terra dove le cose preziose occupano poco spazio o, comunque, una terra dove la mancanza di nuovi talenti impedisce una renaissance prestigiosa. Eppure, a ben guardare, questo ritornello sbrindellato non è sempre veritiero. Ne sia conferma la presenza sul nostro territorio di tanti validi e giovanissimi musicisti che, con sacrificio e passione, decidono di «munirsi di ali e mettere radici nei sogni». Di questa nuova generazione di agguerriti “spiriti sognatori” ne è degno simbolo la luminosa figura artistica di Matteo Mastromarino, un clarinettista che, pur se diciannovenne, conosce già profondamente il segreto di una più vasta rispondenza fra l’uomo e l’universo, tramite una scrupolosa ricerca musicale e una lussuosa mise en œuvre di un suono nobile, elegante e puro (sincero testo a fronte della sua extra-ordinaria personalità di eccellente virtuoso). Mastromarino è un clarinettista prodigioso (lo si può affermare con naturalezza, senza che ciò implichi  un indulgere in nessuna forma di gulliverizzazione): e appunto “Taranto prodige” è stato il titolo del concerto, tenutosi presso l’Auditorium Tarentum domenica 25 gennaio, che lo ha visto protagonista insieme alla Orchestra ico Magna Grecia, sotto la direzione del Maestro Jesus Medina: è stato un debutto (oserei dire de iure) meritatamente coronato da un tripudio di estasiati consensi e applausi. Prima di continuare, vorrei però subito condividere con il lettore, per maggiore chiarezza, un sorpasso cognitivo circa un aspetto linguistico: il termine prodige non ammicca, come si sarebbe tentati di credere, ad un artificiale enfant prodige (locuzione tanto compassata quanto perniciosa, che relegherebbe il suo destinatario nell’ambito troppo vago e ristretto della non ben identificata “brillante promessa”); lo ripeto (e non perché bis repetita placent): nel parlare di clarinettista prodigioso non v’è roboante retorica o buonismo compiaciuto di sé. L’aggettivo prodigioso non viene usato in questa sede per sottolineare le già importanti esperienze musicali di Mastromarino, sia in ambito nazionale (collaborazione con il Teatro Carlo Felice di Genova, sotto la direzione del violinista israeliano Shlomo Mintz; terzo premio, categoria senior, alla 10° edizione del Concorso Internazionale di Clarinetto Saverio Mercadante di Noci) che internazionale (partecipazione alla LVII Internationale Sommerakademie del Collegium Musicum di Pommersfelden in Franconia, patrocinata dai Conti di Schönborn-Wiesentheid; finalista alle ultime selezioni della European Union Youth Orchestra), ma per sottolineare primieramente un aspetto che non ho difficoltà a chiamare spirituale: il fatto che Mastromarino, nell’atto performativo del suonare, avverte la propria anima essere pienamente un tesoro musicale, grazie al quale egli con profonda umiltà riesce a far germogliare (far luce pienamente su) universi colmi di verità e bellezza: egli dialoga con il pubblico “parlando” direttamente ex abundantia cordis.

Tutto questo è il risultato del suo enorme coraggio; sì, avete letto bene: coraggio. Estote parati: parlo del coraggio (che di questi tempi fa pendant con l’azzardo e il rischio eroico) di affermare, incessantemente, ciò che lui essenzialmente è: un giovane detentore del potere della rivelazione artistica; un commensale ed un compatriota dell’Armonia; un sapiente traduttore di quelle folgorazioni di magnitudine di cui si alimenta la Musica. Proprio per questo, non ci si deve stupire del fatto che la vox intima del suo clarinetto Selmer riesce a proiettare luminosità ed esattezza: tutto, infatti, rimanda all’essenza. Cosicché ciò che è stato offerto ai fortunati uditori (al pubblico dell’Auditorium Tarentum) è autenticamente l’Innere Stimme di un’anima artistica che ha la forza di debordare verso il suo vicino, trovando subito la vena, arrivando diretta e precisa, palpitante e vibratile, donandosi ai suoi fratelli-di-tema seduti in sala, i quali avvertono che «sopra di [loro] c’è musica» (Osip Mandel´štam), ne respirano il miracolo e ne sono grati.

Come ogni grande spirito artistico, Mastromarino non tenta di accordare gli enigmi più reconditi (nel nostro  mondo fin troppo spiegabile, «le spiegazioni ammazzano», direbbe Carmelo Bene), ma lascia devotamente inspiegato il mistero, offrendolo a se stesso e agli altri in tutta la sua identità imponderabile, offrendolo come vertigine irripetibile: in questo consiste quel sovrappiù epico di cui si carica il suo impegno musicale (impegno assunto con altrettanta maturità epica). Ci si rende allora pienamente conto di come la “sana ossessione” di questo giovanissimo clarinettista per un costante e sempre più maturo iter di crescita musicale (che, aborrendo dalle pastoie di biechi provincialismi, con entusiasmo desidera annoverare sempre più interessanti esperienze orchestrali e solistiche) sia il naturale controcanto della sua etica (che qui vorrei chiamare “socratica”). Voglio dire che le categorie di Bene-Bello-Giusto in Mastromarino coincidono perfettamente, realizzando un mirabile innesto chimerico, ma vieppiù reale e per questo tanto stupefacente: il Giusto del viaggio (la fertile gioia da lui provata nell’affrontare sempre nuove sfide), il Bene dell’approdo (sempre momentaneo poiché trampolino per nuovi viaggi) e il Bello della narrazione della propria itineranza artistica (itineranza metabolizzata sempre all’insegna di una grandezza spirituale che lo contraddistingue fra tanti) tendono in lui ad una vigorosa armonia, caratterizzata da una sobria ebrietas che trova riscontro, sostanza, realizzazione (com’è naturale che sia) in esecuzioni potentissime ma al contempo equilibrate, come quella del Concerto per Clarinetto e Orchestra n. 1 in Fa minore op. 73 di Carl Maria von Weber (1786-1826) e del Concertino per Clarinetto e Orchestra di Ante Grgin (1945). I due brani in programma, nettamente agli antipodi tanto per forma quanto per carattere, sono stati affrontati da Matteo Mastromarino con la sua consueta squisita raffinatezza (senza parlare della sua formidabile presenza scenica), che gli ha permesso di giocare (jouer, play) disinvoltamente con una sconfinata serie di nuances timbriche.

Dopo aver ascoltato il concerto di Mastromarino non si può non comprendere che per lui suonare è un atto di sublimazione dell’estasi-di-esattezza insita nella Musica stessa; è un viaggio reso possibile solo dopo aver riconosciuto un punto massimo di bellezza (cioè la bellezza di ciò che si è autenticamente) che coincide puntualmente con la propria identità: infatti, solo lì dove c’è identità c’è anche stile. Certo, ci vuole coraggio da vendere per vivere in una tale dimensione, ma essa è l’unica che consente a un musicista di conoscere (anzi, ri-conoscere) la sua “origine” e quindi, di conseguenza, di avere la forza di costruire, sempre più compiutamente, un proprio stile personale.                                                            
Lo dirò in brutta copia, a fior di labbra: la conquista della verità-di-se-stessi, e del conseguente partage mistico con il mondo, forse può spaventare (spaventa perché è un qualcosa che ci conduce proprio sull’orlo del vulcano dell’imponderabile); ma bisogna pur iniziare da qualche parte questa fondamentale conquista: non è stato detto forse che il duca Guglielmo decise di iniziare la sua conquista dell’Inghilterra mangiando un boccone di sabbia britannica? Eppure, iniziare non basta… Intendo dire che (come del resto ogni artista intuisce, o almeno dovrebbe intuire) la ricerca non può avere mai fine, poiché è un impegno audace e ad oltranza. Registra ottimamente Friedrich Hölderlin: «molto c’è da trovare, e di grande, e molto vi è oltre». Gli spiriti artistici hanno effettivamente in sé le potenzialità per vivere degnamente questa ricerca e ascoltare, con «orecchio introverso», la propria Verità, il proprio Tema, il proprio Tono, poiché consapevolmente (operando con coraggio una scelta di vita “dissidente” e “folle” che, senza aver paura del proprio eccesso e della propria sproporzione, ha il compito di rinvigorire le lobotomizzate certezze del mondo) decidono di «munirsi di ali e mettere radici nei sogni»; e si sa che la meta dei «cacciatori della magia dei sogni» si spinge sempre oltre, non sta mai ferma: «come non stanno ferme le albe, come non stanno fermi nemmeno i brividi, come non stanno ferme nemmeno le onde» (Andreas Embirikos).


Il musicista che sa vagare lungo gli intricati sentieri che conducono verso l’Innere Stimme è consapevole che con l’ausilio dell’Arte e del Bene egli può vivere pienamente la sua esistenza e divenire contemporaneamente il necessario ierofante che consenta di far risuonare prodigiosamente le mute esistenze del prossimo. Il nostro mondo ipocrita può smentire ogni cosa che diciamo, ma almeno questo ce lo deve concedere: se si è in una dimensione di grandezza spirituale che consente di vivere momenti irripetibili di unione tra fatti tonali ed esperienziali; se l’interiorità si afferma («Wenn Inneres sich bewährt») e riusciamo a folgorare la radura (di heideggeriana memoria) del nostro Essere, allora il Bene deve essere imprescindibilmente riconosciuto: il dovere-di-essere-se-stessi deve essere riconosciuto e apprezzato perché è la conditio sine qua non della felicità umana. Pertanto, riconoscendo in Matteo Mastromarino (clarinettista che viaggia seguendo la stella polare del socratico Bene-Bello-Giusto, e per questo è degno di essere chiamato Artista) una extra-ordinaria prodigiosità musicale, mi sento di augurargli un’unica cosa: riuscire passo dopo passo a costruire, grazie alla purezza del suo animo ed alla forza del suo intelletto, una piena «libertà di muovere ove egli voglia» (Hölderlin), munendosi di ali e mettendo radici nei sogni, affinché possa «fare di ogni giorno una galleria di momenti inconfondibili e assoluti» (Cesare Pavese)

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