Essere
prodigiosamente in uno stato di
grandezza
o
sia
ricognizioni
sulla extra-ordinarietà di un giovane
clarinettista
di Attilio Cantore
Wenn Inneres sich bewährt, ist Gutes zu erkennen,
Es ist zu würdigen, von Menschen zu benennen,
Est ist zu
achten, nüzzt und ist nothing in dem Leben.
Se
l’interiorità si afferma, il bene va riconosciuto,
Si
deve apprezzarlo, gli uomini devono nominarlo,
Va
considerato, serve ed è necessario alla vita.
Friedrich
Hölderlin (Das Gute - Il Bene)
TARANTO - La nostra
epoca è caratterizzata da una muta malinconia biologica e da una disarmonica
incertezza che sembrano paralizzare ogni cosa; e d’un tremore osteocitico è
pervasa la gente, sì prostrata alla nequizie di tale orrido sfacelo. Ripetiamo roboticamente,
come automi imbelli, le parole Libertà
e Umanità, «che ormai rischiano di
diventare quasi dei mozziconi» (Titos
Patrikios), paghi della
loro forzosa obsolescenza di lemmi corrotti da lungo tempo e sommersi da
onorifica naftalina; e con loro anche il Coraggio, il Rischio e la Scelta
(insomma, tutto ciò che ha a che fare con un possibile eccedere i bordi, o sia
i margini tracciati dalla realtà avvilente) sembrano essersi eclissati nelle
valli dei trofei fossili ed oggi vivono solo sul registro dei contumaci tenuto
dai magazzinieri dell’Arte, quasi che ognuno di noi non avesse in sé le giuste
qualità per osare o, per meglio dire, non dovesse anzitutto tracciare le linee
di mondi possibili, approntare la carta geografica di nuove realtà più dolci e
poeticamente abitabili: realtà tangibili, epidermicamente aderenti a ciò che
noi autenticamente scopriremmo (dopo una vasta e preziosa itineranza) di
essere. Anche se il mondo ci ringhia contro il contrario, illudendosi di
stordirci con i suoi rabbiosi decibel miscredenti, credo che, dopotutto, non
sia più il tempo di indossare ancora la pesante livrea tragica della sconfitta
genetica e camminare tremebondi nella febbre delle nostre straniere e false metropoli:
abbiamo un disperato bisogno di scoprire la «libertà di osare sulle strade che
impongono l’innocenza come un dovere di verità» (Carla Saracino); dovremmo, in
altri termini, raggiungere deliberatamente il centro di ciò che siamo,
munendoci di ali per dare slancio ai nostri sogni. Questo è, indubitatamente,
difficile, soprattutto in un’epoca come la nostra, intessuta di meschini
rapporti economici per i quali l’uomo in sé non ha più valore; eppure, bisogna
desiderare di essere liberi (fermo restando che, come disse Julius Evola,
«ognuno ha la libertà che gli spetta, misurata dalla statura e dalla dignità
della persona»). In ogni caso, dobbiamo lottare per essere autenticamente
liberi; d’altronde, si chiedeva Dostoevskij: «Cos’è l’uomo senza desideri,
senza libertà e senza volontà, se non una puntina nel cilindro di un
organetto?».
È vero,
«munirsi di ali e mettere radici nei sogni» (Salman Rushdie) è difficile:
impone una vera e propria elettrolisi, un congedo dal nostro modo di essere,
uno scarto lacerante rispetto al nostro modo di organizzare il mondo. La scommessa
è non indulgere più nella comoda nostalgia di fantasmagorici beaux jours; la scommessa è divenire dissidenti rispetto alle regole
prefabbricate del reale; dovremmo divenire folli
ed essere all’altezza della nostra follia, per dire ciò che va detto, anche
a costo di fingere di mentire; e poeti (artisti),
per recarci nelle immaginarie Avalon o Belmont e tronarne arricchiti. Ma chi
mette in dubbio l’inflessibile tirannide della monoliticità del reale,
auspicando possibili nuove realtà fluide, viene guardato sempre con sospetto,
quasi fosse colpevole agli occhi del mondo di crimen lesæ majestatis; allora non mi sembra un caso che proprio i
folli, i poeti e i dissidenti (enigmatici “stranieri” che creano cortocircuiti
esistenziali), non furono ammessi nel dorato consesso della Repubblica platonica. Come reagire? Dovremmo
riscoprire, in un’artistica deflagrazione comiziale, ciò che essenzialmente
siamo destinati ad essere; ma, per comprenderlo, dobbiamo prima imparare ad
ascoltare (anzi, auscultare), gli abissi rizomatici della nostra anima, giacché
è in de profundis che abita il
‘sisma’, il ‘colpo apoplettico’, il singhiozzante hoquetus, il cantus abscissus
che prelude alla nascita dell’Arte. Lo scrittore e critico musicale Giorgio
Vigolo parlava a tal proposito di orecchio
introverso, un “orecchio” «che si è separato dal mondo esterno, che si
ravvolge in se stesso ed ascolta attraverso il silenzio, la meditazione e la
memoria: che realizza il “conosci te stesso”, come un “odi te stesso”».
La scommessa
più grande, il nostro azzardato all-in,
il nostro vincente colpo di dadi, deve essere cercare noi stessi: «cercare se
stessi, non si cerca che questo» (Cesare
Pavese). Per un artista la ricerca di sé, della
«nudità fertile del [suo] spirito» (Valerio
Magrelli) diviene un dovere di verità; lo diviene
nel momento in cui, per segnali formicolanti e rifrazioni, per legature e
sincopi, egli riesce ad auscultare la polifonia che gli appartiene, ad avere
pienamente sete di familiarità con il proprio sé, in un partage mistico con l’Umano e la Natura. Contro il dogmatismo
asfittico del mondo della Tecnica ed il cieco brancolare degli ambigui
interessi economici, l’Artista (cioè il Wanderer,
il viandante che cammina colmo di crucci e di sogni «con un bastone e la
ciotola del pellegrino»), eroe dell’epos della quotidianità, deve impegnarsi ad
essere in maniera inesausta, per destinazione genetica, l’ostinato sostenitore
della Verità del proprio Essere. Per far ciò, la sua “giusta ambizione” (il
fichtiano Streben, che è anelito, ma
anche struggimento; tensione verso l’infinito, ma anche sforzo mai appagato)
non deve conoscere limiti o ridicole cautele: egli deve sempre vibrare in
simpatia con le folgorazioni di magnitudine divina, e lo deve fare con
entusiasmo (cioè, avvertendo un dio vibrare dentro di sé).
L’Artista deve
riuscire a squarciare il limite equabile del “così è” (se trova bastantemente
forza per farlo), scombinando le armonie fra le note con il suo sguardo
pungente, per poi coagularle in una nuova e più forte adiacenza nuziale che
parli all’uomo del proprio «Innere Stimme»
(Robert Schumann):
della profondità sonora, della vox intima
che mormora al di sotto del fondo di noi stessi.
Esattamente questo
dovrebbe fare l’artista: scavare senza sosta con sudore e gioia nelle miniere
del cuore e del dolore per trovare la propria ‘pietra angolare’ e saperla custodire,
a dispetto della vile crudeltà del mondo, per poi donarla al prossimo in un
originale ed intimo «inno limpido della vita» (Καθαρὸς ὕμνος τοῦ βίου), di cui parlava il
grande poeta greco Odisseas Elitis.
L’artista vero
è dunque una persona che gestisce in maniera super-eroica la propria condizione
umana (poiché sa vivere il trauma di un sisma epifanico, trasducendolo con
specificità tecnica per il bene dei suoi simili); è altresì un uomo fragile
(perché più vicino alla terribile e veneranda presenza dei numi); è in ogni
caso un essere extra-ordinario, i cui
battiti cardiaci sfuggono all’ordine consueto del loro ritmo (perché aderenti
ai ritmi della Natura). L’artista vero è, ne
multus sim, una creatura prodigiosa
e preziosa: è un creatura mitica, giacché predestinata a
identificare la destinalità del proprio essere-al-mondo, riuscendo proprio per
questo a vivere pienamente il Bene (cioè
vivere pienamente il dovere di essere se stesso).
L’Italia,
effettivamente investita da una poderosa crisi culturale, viene troppo spesso
demonizzata per essere una terra dove le cose preziose occupano poco spazio o,
comunque, una terra dove la mancanza di nuovi talenti impedisce una renaissance prestigiosa. Eppure, a ben
guardare, questo ritornello sbrindellato non è sempre veritiero. Ne sia
conferma la presenza sul nostro territorio di tanti validi e giovanissimi
musicisti che, con sacrificio e passione, decidono di «munirsi di ali e mettere
radici nei sogni». Di questa nuova generazione di agguerriti “spiriti
sognatori” ne è degno simbolo la luminosa figura artistica di Matteo
Mastromarino, un clarinettista che, pur se diciannovenne, conosce
già profondamente il segreto di una più vasta rispondenza fra l’uomo e
l’universo, tramite una scrupolosa ricerca musicale e una lussuosa mise en œuvre di un suono nobile,
elegante e puro (sincero testo a fronte della sua extra-ordinaria personalità di eccellente virtuoso). Mastromarino è
un clarinettista prodigioso (lo si può
affermare con naturalezza, senza che ciò implichi un indulgere in nessuna forma di
gulliverizzazione): e appunto “Taranto prodige” è stato il titolo
del concerto, tenutosi presso l’Auditorium
Tarentum domenica 25 gennaio, che
lo ha visto protagonista insieme alla Orchestra
ico Magna Grecia, sotto la direzione del Maestro Jesus Medina: è stato un debutto
(oserei dire de iure) meritatamente coronato
da un tripudio di estasiati consensi e applausi. Prima di continuare, vorrei però
subito condividere con il lettore, per maggiore chiarezza, un sorpasso
cognitivo circa un aspetto linguistico: il termine prodige non ammicca, come si sarebbe tentati di credere, ad un artificiale
enfant prodige (locuzione tanto
compassata quanto perniciosa, che relegherebbe il suo destinatario nell’ambito troppo
vago e ristretto della non ben identificata “brillante promessa”); lo ripeto (e
non perché bis repetita placent): nel
parlare di clarinettista prodigioso non v’è roboante retorica o
buonismo compiaciuto di sé. L’aggettivo prodigioso
non viene usato in questa sede per sottolineare le già importanti
esperienze musicali di Mastromarino, sia in ambito nazionale (collaborazione
con il Teatro Carlo Felice di Genova,
sotto la direzione del violinista israeliano Shlomo Mintz; terzo premio, categoria
senior, alla 10° edizione del
Concorso Internazionale di Clarinetto Saverio
Mercadante di Noci) che internazionale (partecipazione alla LVII Internationale Sommerakademie del Collegium Musicum di Pommersfelden in Franconia,
patrocinata dai Conti di Schönborn-Wiesentheid; finalista alle ultime selezioni
della European Union Youth Orchestra),
ma per sottolineare primieramente un aspetto che non ho difficoltà a chiamare spirituale:
il fatto che Mastromarino, nell’atto performativo del suonare, avverte la
propria anima essere pienamente un tesoro
musicale, grazie al quale egli con profonda umiltà riesce a far germogliare
(far luce pienamente su) universi colmi di verità e bellezza: egli dialoga con
il pubblico “parlando” direttamente ex
abundantia cordis.
Tutto questo è
il risultato del suo enorme coraggio; sì, avete letto bene: coraggio. Estote parati: parlo del coraggio (che
di questi tempi fa pendant con l’azzardo
e il rischio eroico) di affermare, incessantemente, ciò che lui essenzialmente
è: un giovane detentore del potere della rivelazione artistica; un commensale ed
un compatriota dell’Armonia; un sapiente traduttore di quelle folgorazioni di
magnitudine di cui si alimenta la Musica. Proprio per questo, non ci si deve
stupire del fatto che la vox intima
del suo clarinetto Selmer riesce a
proiettare luminosità ed esattezza: tutto, infatti, rimanda all’essenza. Cosicché ciò che è stato offerto
ai fortunati uditori (al pubblico dell’Auditorium
Tarentum) è autenticamente l’Innere
Stimme di un’anima artistica che ha la forza di debordare verso il suo
vicino, trovando subito la vena, arrivando diretta e precisa, palpitante e
vibratile, donandosi ai suoi fratelli-di-tema
seduti in sala, i quali avvertono che «sopra di [loro] c’è musica» (Osip Mandel´štam),
ne respirano il miracolo e ne sono grati.
Come ogni
grande spirito artistico, Mastromarino non tenta di accordare gli enigmi più
reconditi (nel nostro mondo fin troppo
spiegabile, «le spiegazioni ammazzano», direbbe Carmelo Bene), ma lascia devotamente
inspiegato il mistero, offrendolo a se stesso e agli altri in tutta la sua
identità imponderabile, offrendolo come vertigine irripetibile: in questo consiste
quel sovrappiù epico di cui si carica
il suo impegno musicale (impegno assunto con altrettanta maturità epica). Ci si
rende allora pienamente conto di come la “sana ossessione” di questo
giovanissimo clarinettista per un costante e sempre più maturo iter di crescita
musicale (che, aborrendo dalle pastoie di biechi provincialismi, con entusiasmo
desidera annoverare sempre più interessanti esperienze orchestrali e
solistiche) sia il naturale controcanto della sua etica (che qui vorrei chiamare “socratica”). Voglio dire che le
categorie di Bene-Bello-Giusto in Mastromarino coincidono perfettamente, realizzando un
mirabile innesto chimerico, ma vieppiù reale e per questo tanto stupefacente:
il Giusto del viaggio (la fertile
gioia da lui provata nell’affrontare sempre nuove sfide), il Bene dell’approdo (sempre momentaneo poiché
trampolino per nuovi viaggi) e il Bello della narrazione della propria itineranza
artistica (itineranza metabolizzata sempre all’insegna di una grandezza
spirituale che lo contraddistingue fra tanti) tendono in lui ad una vigorosa armonia,
caratterizzata da una sobria ebrietas
che trova riscontro, sostanza, realizzazione (com’è naturale che sia) in
esecuzioni potentissime ma al contempo equilibrate, come quella del
Concerto per Clarinetto e Orchestra n. 1 in Fa minore op. 73 di Carl
Maria von Weber (1786-1826)
e del Concertino per Clarinetto e Orchestra di Ante Grgin (1945). I due brani in programma, nettamente
agli antipodi tanto per forma quanto per carattere, sono stati affrontati da Matteo
Mastromarino con la sua consueta squisita raffinatezza (senza parlare della sua
formidabile presenza scenica), che gli ha permesso di giocare (jouer, play) disinvoltamente con una sconfinata
serie di nuances timbriche.
Dopo aver
ascoltato il concerto di Mastromarino
non si può non comprendere che per lui suonare è un atto di sublimazione
dell’estasi-di-esattezza insita nella Musica stessa; è un viaggio reso
possibile solo dopo aver riconosciuto un punto massimo di bellezza (cioè la bellezza di ciò che si è autenticamente) che
coincide puntualmente con la propria identità: infatti, solo lì dove c’è identità c’è anche stile. Certo, ci vuole coraggio da vendere per vivere in una tale
dimensione, ma essa è l’unica che consente a un musicista di conoscere (anzi,
ri-conoscere) la sua “origine” e quindi, di conseguenza, di avere la forza di
costruire, sempre più compiutamente, un proprio stile personale.
Lo dirò in brutta copia, a fior di
labbra: la conquista della verità-di-se-stessi, e del conseguente partage mistico con il mondo, forse può
spaventare (spaventa perché è un qualcosa che ci conduce proprio sull’orlo del
vulcano dell’imponderabile); ma bisogna pur iniziare da qualche parte questa
fondamentale conquista: non è stato detto forse che il duca Guglielmo decise di
iniziare la sua conquista dell’Inghilterra mangiando un boccone di sabbia
britannica? Eppure, iniziare non basta… Intendo dire che (come del resto ogni
artista intuisce, o almeno dovrebbe intuire) la ricerca non può avere mai fine,
poiché è un impegno audace e ad oltranza. Registra ottimamente Friedrich
Hölderlin: «molto c’è da trovare, e di grande, e molto vi è oltre». Gli spiriti
artistici hanno effettivamente in sé le potenzialità per vivere degnamente
questa ricerca e ascoltare, con
«orecchio introverso», la propria Verità,
il proprio Tema, il proprio Tono, poiché consapevolmente (operando
con coraggio una scelta di vita “dissidente” e “folle” che, senza aver paura
del proprio eccesso e della propria sproporzione, ha il compito di rinvigorire
le lobotomizzate certezze del mondo) decidono di «munirsi di ali e mettere
radici nei sogni»; e si sa che la meta dei «cacciatori della magia dei sogni» si
spinge sempre oltre, non sta mai ferma: «come non stanno ferme le albe, come
non stanno fermi nemmeno i brividi, come non stanno ferme nemmeno le onde» (Andreas
Embirikos).
Il musicista che sa vagare lungo gli
intricati sentieri che conducono verso l’Innere
Stimme è consapevole che con l’ausilio dell’Arte e del Bene egli può vivere
pienamente la sua esistenza e divenire contemporaneamente il necessario
ierofante che consenta di far risuonare prodigiosamente
le mute esistenze del prossimo. Il nostro mondo ipocrita può smentire ogni cosa
che diciamo, ma almeno questo ce lo deve concedere: se si è in una dimensione
di grandezza spirituale che consente di vivere momenti irripetibili di unione
tra fatti tonali ed esperienziali; se l’interiorità si
afferma («Wenn Inneres sich bewährt»)
e riusciamo a folgorare la radura (di
heideggeriana memoria) del nostro Essere, allora il Bene deve essere imprescindibilmente riconosciuto: il
dovere-di-essere-se-stessi deve essere riconosciuto e apprezzato perché è la conditio sine qua non della felicità
umana. Pertanto, riconoscendo in Matteo Mastromarino (clarinettista che viaggia seguendo la stella polare del socratico Bene-Bello-Giusto, e per questo è degno di essere chiamato Artista)
una extra-ordinaria prodigiosità musicale,
mi sento di augurargli un’unica cosa: riuscire passo dopo passo a costruire,
grazie alla purezza del suo animo ed alla forza del suo intelletto, una piena «libertà
di muovere ove egli voglia» (Hölderlin), munendosi di
ali e mettendo radici nei sogni, affinché possa «fare di ogni giorno una
galleria di momenti inconfondibili e assoluti» (Cesare Pavese).
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