Nell’arte musicale romantica, e dunque nella tradizione secolare delle esecuzioni e dell’estetica, vige un mito paradossale, inerente all’incompiutezza. L’opera non conclusa sarebbe la dimostrazione dell’impossibilità stessa di finire, ossia di contenere la tensione infinita all’interno di una singola opera (en voici le mythe), eppure il prodotto del genio sarebbe comunque perfetto, anche quando ‘non compiuto’ in ogni sua parte (bisticcio etimologico, perché il latino perfectum significa appunto ‘completato’, e imperfectum è ‘incompiuto’).
Accostare dunque nel programma di un concerto due grandi sinfonie non completate, la VII di Franz Schubert (L’Incompiuta per antonomasia) e la IX di Bruckner(con cui le certezze del sinfonismo romantico tramontano per sempre) è impresa titanica che soltanto un musicista prodigioso come Claudio Abbado può affrontare; tanto più allusiva, nell’ambito di un Festival di Lucerna che intitola la sua giubilare edizione n. 75 ¡Viva la Revolución! In effetti, rivoluzionario fu Schubert nell’ampliare a dismisura le proporzioni sinfoniche (si pensi alla Grösse); rivoluzionario Bruckner nel tendere ai limiti delle possibilità armoniche e tonali una musica che oltrepassava di più lunghezze lo stesso Schubert e Wagner; rivoluzionaria, non da ultimo, è la lettura di Abbado, che azzera il mito romantico dell’incompiutezza perfetta, sostituendolo con una commovente rappresentazione della fragilità e del dolore umani, a volte troppo opprimenti per permettere il termine di un progetto artistico.L’Allegro moderato che apre il torso schubertiano sgorga da un tremolo dei violini impressionante per la sua sonorità minima, eppure definita: un ronzio inquietante, un frullare di ali su cui si adagia il primo tema melodico. Abbado predilige il pizzicato (la cifra “artigianale” dell’intero concerto) dei violoncelli, equilibrandolo con i legni e gli ottoni. Sarebbe ozioso parlare della trasparenza e della leggerezza ottenute dal direttore; piuttosto, del suono spicca la dilatazione, tesa al massimo e sostenuta con straordinaria intensità. Nell’Andante con moto si ripresenta un effetto già apprezzato in precedenza, del disegno di ciascuna sezione orchestrale che è dato intendere distintamente dall’inizio alla fine, e non in modo frammentario come accade solitamente: Abbado insiste dunque – nell’incompiutezza dell’opera – sulla percezione completa della singola proposizione musicale, di ciascuna struttura architettonica della partitura (da quelle macroscopiche dei temi principali alle figurazioni di sostegno e di accompagnamento). Il garbatissimo pizzicato dei contrabbassi richiama poi quello dei violoncelli del I movimento, e tanto più si differenzia dal suono dei violini nella sezione di raccordo, così tenue, levigato, scavato nella sonorità da richiamare i pianissimi di Mahler. Negli ultimi accordi non c’è alcun compiacimento o sottolineatura retorica da pomposo sensus finis applicato ad arte: Abbado non smentisce la sua concezione totalmente anti-retorica della musica.
Se Schubert è autore frequentato da moltissimi anni, e indagato nella complessità delle componenti sintattiche, lo studio applicato ultimamente a Bruckner (e proprio a Lucerna, con la IV, la V, la I, e ora la IX Sinfonia) giunge a risultati sconvolgenti: l’interpretazione di Abbado rovescia quasi tutte le consuetudini esecutive cui l’ascoltatore è abituato, allontanandosi dai luoghi comuni sul sinfonista magniloquente, trionfale, aggressivo, mistico, intriso di Dio. Il Bruckner di Abbado non è nulla di tutto questo, perché il direttore ne fa emergere soprattutto la dimensione dolorosa e tragica, ossia propriamente umana, incerta, senza risposte. Anche a tale proposito l’incompiutezza della sinfonia si spiega come dramma di mezzi linguistici ed espressivi troppo pervasivi; l’esistenza stessa del compositore non fa in tempo a risolvere tutti gli arcani, non riesce a dipanare il nodo gordiano dell’armonia e della testura del problematico IV movimento. Nell’interpretazione che Abbado offre dei primi tre, l’assenza del finale, su cui Bruckner si arrovellò fino a poche ore prima della morte, non è inquietudine sublime dell’artista romantico, impedito da un afflato spirituale che in lui soffia troppo potente, ma deriva dalla difficoltà tecnica, da un’arte ostica e paralizzante, dalla sfida agli strumenti espressivi, condotti al limite delle loro possibilità.
A seguito di tale impostazione il direttore può anche far scorrere alcune frasi senza enfasi o pesantezza, come poco dopo l’attacco e prima dell’enunciazione del tema d’avvio nelFeierlich, Misterioso che apre la sinfonia. Grande sorpresa è ascoltare il motivo portante reso come un cantabile, con lo stesso tempo di quanto precede: il dispiegamento del suono segue dinamiche differenti rispetto a quel che accadeva in Schubert. Eppure con il modello schubertiano si profila un collegamento sempre più importante, allorché il pizzicato dei violoncelli determina l’accompagnamento, ed è coronato da cenni appena udibili dei corni, con una raffinatissima saldatura sonora. Quando singoli strumenti devono enunciare un brandello di tema o un disegno parallelo, Abbado ne mantiene le sonorità in piano, affinché non sorga alcun eroico protagonismo (con i legni si tratta di un effetto bellissimo e inedito). Il terzo tema del I movimento, quello che gli antichi esegeti indicavano come “lo spirito del Gotico”, o con etichette evocative del genere, costituisce un pendant del precedente cantabile, ma gravato da una tristezza incalzante. Al suo centro l’intervento del flauto ha un atteggiamento sfacciato, quasi espressionistico, come a sfidare un dolore lancinante. Se si manifesta solennità, nel momento in cui la prima tromba emerge appena sul flutto degli archi, è solennità funerea, quasi da marcia funebre. Il suono orchestrale pieno raggiunge l’amalgama perfetto di tutte le sezioni, profilando comunque frasi di violoncelli e contrabbassi davvero mai udite in precedenza, mentre il movimento si conclude nel colore della più dolorosa tragedia.
Un vigorosissimo pizzicato (ancora!) inaugura lo Scherzo (Bewegt, lebhaft, mentre ilTrio reca la sola indicazione Schnell), in cui Abbado ribalta l’accostamento usuale a un Bruckner compulsivo e forsennato; la sciocchezza critica è giunta a definire questa musica come volontà dischiacciare e di distruggere. È invece la tragedia dell’essere schiacciati da una realtà tanto più insidiosa poiché avanza leggiadra, a passi di danza (Abbado non dimentica la natura originaria dello Scherzo); ne è emblema il Trio, temporaneo incanto in cui l’oboe effonde da solo ulteriore disperazione.
Presenza sonora che apparenta II e III movimento è il timpano cupo e ossessivo, che nell’Adagio (Langsam, feierlich) assurge quasi a pedale, fino a quando gli archi enunciano il secondo tema con una forza sonora che supera anche quella di ottoni e legni. Poi, come fenomeno preventivato, a polarizzare l’ascolto è il doppio pizzicato dei violoncelli e dei violini: inesorabile come ogni struttura geometrica, esso si oppone a una breve frase di transizione del flauto (preludio del ritorno al primo tema), che innesca una specie di dissoluzione della tonalità (e si spiega perché, ora come in precedenza, Abbado faccia suonare lo strumento in modo marcatamente novecentesco). L’antinomia è dunque realizzata, poiché si oppongono un procedere rigoroso e fiducioso (il pizzicato tante volte valorizzato) e lo sfaldamento progressivo della sintassi tonale: è l’esistenza che sfugge e viene meno; ed è – sembra suggerire Abbado con l’accostamento delle due sinfonie incompiute – un ossimoro che conduce all’aporia del finale mancante. Dopo l’ultimo accordo, ineffabile preludio al nulla eterno, il pubblico del KKL resta a lungo in silenzio, anche quando Abbado ha ormai abbassato le braccia; un turbamento incantato, trasfigurante, che soltanto l’esplosione di un interminabile applauso cerca di liberare. Foto Priska Ketterer, Peter Fischli, Georg Anderhub ©Lucerne Festival
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